L’acqua nel Lazio è morto importante e lo è stata anche in passato. Lo dimostra la massiccia presenza di acquedotti e terme risalenti al periodo dell’impero romano. L’acqua del fiume Tevere all’epoca veniva considerata talmente buona che i Papi se la portavano anche in viaggio. Soltanto a Roma ci son più di 2.000 fontane.
Fontane che sgorgavano naturalmente dalle vene di cui la zona era ricca e che scorrevano ad una profondità minima producendo numerose sorgenti spontanee sparse qua e là ai piedi o a mezza costa dei colli, con conseguenti rivoli d’acqua. Oggi di molte di quelle fontane non c’è più traccia. Gli antichi romani consideravano l’acqua un dono degli dei e quindi era sacra.
Ogni fonte aveva un “personale” nome tutelare, di solito una ninfa. La leggenda racconta che la ninfa Egeria fu amante e moglie di uno dei sette re di Roma, Numa Pompilio. Nell’antica Roma a curare l’acqua era il censore, il magistrato responsabile delle opere pubbliche, affiancato solitamente da un edile curule che era responsabile del demanio e dai questori che ne curavano l’aspetto economico. Poi da Diocleziano in poi il controllo dell’approvvigionamento idrico venne affidato al preafectus urbi.
Nel periodo medievale, le fontane vennero private di alimentazione e si tornò all’antico uso delle fonti: del Tevere e di qualche pozzo per lo più privato. L’unico acquedotto abbastanza funzionante era quello dell’Aqua Virgo, oltre a pochi altri ripristinati saltuariamente e per brevi periodi.
Fontane disseminate nel territorio della capitale ce ne sono a migliaia. Dalle più famose e belle come la fontana di Trevi, la fontana dei quattro fiumi di piazza Navona, la Barcaccia in piazza di Spagna o la fontana caratteristica delle tartarughe, a quelle più piccole, di rione o di quartiere, poco conosciute, ma sicuramente molto interessanti. Tutte da scoprire.